Questo articolo è stato tradotto in italiano dal sito SiriaLibano
L’attivista palestinese Budour Hassan è intervenuta a un dibattito sulla Siria tenutosi a New York il 17 novembre scorso, promosso dal MENA Solidarity Network. Di seguito riportiamo la traduzione del suo intervento (apparso originariamente in inglese sul sito We Write What We Like) e in fondo alla pagina il video.
(Traduzione dall’inglese di Prisca Destro). Nell’aprile 2011 un famosissimo blogger egiziano ha detto ai rivoluzionari siriani che avrebbero dovuto sventolare le bandiere palestinesi durante le manifestazioni del venerdì, solo per dimostrare che sostenevano la resistenza palestinese e per smentire la narrativa del regime secondo la quale il regime stesso sostiene la causa palestinese.
Allora mi sono chiesta: i siriani devono farlo? I siriani devono sventolare la bandiera palestinese solo per dimostrare che sostengono la Palestina? I siriani devono mostrare le proprie credenziali nazionaliste perché il mondo sostenga la loro causa? La risposta mi è stata subito chiara: no, i siriani non devono farlo.
Un amico siriano mi aveva detto, all’inizio della rivolta: “Evitiamo di sventolare bandiere palestinesi e di parlare della Palestina non perché non sosteniamo la causa palestinese, ma perché questa stessa causa è stata sfruttata dal regime a tal punto da diventare un mero strumento politico, e noi amiamo così tanto la Palestina che non siamo d’accordo sul trasformare la causa palestinese in uno strumento politico, ed ecco perché abbiamo evitato di usarla”. E io penso che i siriani non devono farlo, i siriani non devono sventolare una bandiera palestinese per provare che ci sostengono. Perché la Palestina non è una bandiera. La Palestina è senza dubbio molto più di una bandiera.
La Palestina è gli abitanti del campo profughi di Yarmuk, che hanno sostenuto la rivoluzione fin dal primo giorno, che hanno aiutato i siriani in fuga e che hanno partecipato alle proteste, documentato la rivolta e aiutato in tutti i modi possibili. La rivoluzione è anche i rifugiati palestinesi nel campo profughi di al Raml a Latakia, che sono stati colpiti duramente dal regime e che hanno dovuto affrontare una forte repressione a partire da luglio 2011. E la rivoluzione non vive nei palazzi del regime, né nei discorsi di un leader della resistenza che pensa, solo perché guida un movimento di resistenza, di avere il diritto di parlare in nome dei palestinesi, e di uccidere persone innocenti in Siria non solo in nome della resistenza ma anche in nome della Palestina. Ecco perché penso che i siriani non debbano dimostrare niente a nessuno.
In secondo luogo, supponiamo pure che il regime siriano sostenga davvero la resistenza palestinese, questo significa che il regime siriano può controllare la Siria, impedire alla gente di esprimere le proprie opinioni, uccidere e torturare centinaia di migliaia di siriani, solo perché osano dire “no” a più di quarant’anni di oppressione, a più di quarant’anni di ingiustizia? Certo che no. Anche se Bashar al Asad fosse l’unica persona in grado di liberare la Palestina, non lo sosterrei, e sono sicura che anche tanti palestinesi non lo farebbero. Perché la nostra liberazione non può realizzarsi sulla schiavitù di un altro popolo, in particolare quando si tratta della schiavitù delle nostre sorelle e dei nostri fratelli in Siria.
E in effetti la verità è che il regime siriano non ha mai sostenuto davvero la Palestina; per il regime siriano, la Palestina è sempre stata una foglia di fico ed è sempre stata uno strumento politico, fin dagli anni Settanta, quando il regime siriano ha aiutato altre milizie in Libano a schiacciare i rifugiati del campo di Tell al Zaatar. L’assedio e il massacro di Tell al Zaatar non possono essere dimenticati. E non si possono dimenticare nemmeno i massacri compiuti dal partito Amal in Libano negli anni Ottanta, con l’aiuto del regime, contro i rifugiati in Libano e contro l’Olp. E l’assedio del regime al campo profughi di Yarmuk che impedisce alle persone di ricevere medicinali e latte artificiale, che impedisce alle persone di entrare e uscire dal campo, non può essere tollerato e neanche semplicemente ignorato, come purtroppo molti stanno facendo, solo perché pensano che questo regime stia dalla parte della resistenza e dei diritti umani dei palestinesi.
Il punto è che non dovrebbe essere necessario che io, da palestinese, racconti queste cose per convincere le persone di quanto la causa siriana sia giusta. Perché mi sembra lampante che questa rivoluzione sia stata una rivoluzione per la libertà e la dignità. Ma sfortunatamente, per via della polarizzazione tra palestinesi – come in molti altri Paesi arabi – sul regime siriano, dobbiamo ripetere e ripetere sempre queste storie e cercare di convincere i nostri compagni (o ex-compagni) che devono smettere di sostenere il regime siriano, che tutto quello che sentiamo dire del sostegno del regime siriano alla resistenza è nient’altro che propaganda.
E purtroppo non è servito. Le persone sono per lo più arroccate sulle loro posizioni riguardo al regime. Se vogliamo parlare della reazione dei palestinesi nei confronti della rivoluzione siriana, è varia. Sfortunatamente la sinistra, e soprattutto la sinistra mainstream, sostiene il regime di Asad. Ed è qui l’ironia, perché uno dei partiti pro-Asad più sfegatati è il Partito Comunista Israeliano, che sostiene il regime perché, afferma: “Il regime è antimperialista”. Ma al tempo stesso queste persone non hanno avuto nessunissimo problema a partecipare a manifestazioni accanto ai sionisti a Tel Aviv, per esempio i sionisti liberali. Ma come si può dire di sostenere il regime siriano perché è antimperialista e allo stesso tempo partecipare alle proteste con i sionisti?
E poi ci sono altri che dicono che sostenevano la rivoluzione siriana quando era nonviolenta, ma che da quando è diventata violenta non possono più sostenerla, e che la rivoluzione è stata “dirottata”. Beh, sì, la rivoluzione siriana è stata “rubata”, e sappiamo che ci sono molti salafiti, jihadisti e tanti altri gruppi, e molti gruppi pro-America e pro-imperialisti che hanno cercato di rubare la rivoluzione siriana. Ma questo non macchia in nessun modo la rivoluzione siriana, e inoltre non significa che, solo perché un movimento rivoluzionario è stato rubato, noi dovremmo metterci in disparte e smettere di sostenerlo.
Ovviamente ci sono ancora tantissimi rivoluzionari che operano sul campo, tanti di loro sono nonviolenti, e ci sono anche tante brigate armate non-confessionali che non possiamo ignorare. Se la rivoluzione è stata rubata non andiamo a dare la colpa alle persone che sono state derubate, ma piuttosto facciamo tutto il possibile per stare dalla parte della gente per riportare la rivoluzione nella giusta direzione. Ed è questo che tante persone di sinistra non sono riuscite a capire.
All’altro capo ci sono invece le persone di destra e gli islamisti che sostengono la rivoluzione siriana non perché credono nel diritto alla libertà e alla dignità, ma perché pensano che sia una rivolta sunnita contro un regime alawita. Questo è il motivo per cui è stato molto difficile per me partecipare a proteste organizzate dagli islamisti in sostegno alla rivoluzione, perché per me, anche se ovviamente all’interno della rivoluzione ci sono movimenti religiosi, resta una rivoluzione per la libertà, l’uguaglianza, la giustizia sociale e la dignità. Ed ecco perché non posso essere d’accordo con la linea degli islamisti qui in Palestina, che sostengono la rivoluzione solo perché la vedono come una disputa sunniti contro alawiti.
C’è una piccola parte della sinistra palestinese che sostiene la rivoluzione siriana e non impartisce lezioni ai siriani su quello che devono fare e su come hanno fallito. Siamo riusciti a organizzare alcune manifestazioni, a Haifa per esempio, a Gerusalemme e in altri posti in Palestina. Anche se sono state piccole manifestazioni, penso che sia stato molto importante per noi mostrare al popolo siriano che sì, in Palestina ci sono persone che sono dalla vostra parte, e ci sono persone che non credono alla propaganda del regime.
È molto significativo che in Siria ci sia un ramo dei servizi segreti, una delle sezioni dei servizi segreti più tristemente famose in Siria si chiami “Palestina”. Significa che ci sono persone torturate, anche palestinesi, tra l’altro, che sono torturate nel nome della Palestina, nel nome del nostro Paese, nel nome della nostra causa, perché crediamo che sia una causa per la libertà.
Adesso a quei palestinesi e a quelle persone che credono che il regime sostenga davvero la Palestina, e che non sostengono la rivoluzione, che se ne stanno in disparte e dicono: “No, non vogliamo sostenere la rivoluzione”, o che restano neutrali, io dico: voi avete la vostra Palestina e io ho la mia.
La vostra Palestina è una sezione dei servizi segreti a Damasco che uccide e tortura le persone, mentre la mia Palestina è Khaled Bakrawi, il martire del campo profughi di Yarmuk, che è stato arrestato e torturato a morte. La vostra Palestina è un discorso di Bashar al Asad, mentre la mia Palestina sono i canti dei combattenti siriani per la libertà a Hama. La vostra Palestina è solo vuota retorica, mentre la mia Palestina è la gente di Bustan al Qasr che brandisce la foto di Samer Assawi, il detenuto in sciopero della fame.
La mia Palestina è la gente che da nord a sud canta in solidarietà con Gaza durante l’ultima guerra contro Gaza, l’anno scorso, e dice: “O Gaza, siamo con te fino alla morte”. L’hanno fatto mentre erano bombardati dal regime di Asad. La mia Palestina è quella della Gioventù rivoluzionaria siriana a Damasco, che ha pubblicato un pamphlet in solidarietà con i palestinesi del Naqab dicendo “Prawer non passerà!”.
Dunque i rivoluzionari siriani, anche quando si trovano ad affrontare orribili situazioni di torture, persecuzioni, repressione, continuano a ricordarsi delle loro sorelle e dei loro fratelli in Palestina, continuano a cantare solidali e non dimenticano i prigionieri.
Penso perciò che sia importantissimo ricordarlo, e ricordare le centinaia di migliaia di prigionieri siriani e palestinesi che ancora marciscono nelle prigioni del regime, come per esempio Ali Shihabi, il comunista palestinese detenuto nelle carceri del regime siriano da quasi un anno, e Maher al Jaja, un altro giovane attivista del campo profughi di Yarmuk, detenuto dal regime siriano da più di un anno e di cui attualmente nessuno sa nulla.
Non dimenticheremo neanche il martire Anas Amara, assassinato solo perché stava cercando di fare entrare aiuti nel campo profughi di Yarmuk e di rompere l’assedio. E la mia Palestina è anche quella di Jihad Asad Muhammad, il giornalista siriano che anche prima della rivoluzione siriana ha sempre scritto parole di solidarietà alla Palestina, e che come molti altri non credeva che questa Palestina è la Palestina di Bashar al Asad, ma una causa che interessa tutti gli arabi.
Chiedo dunque solo un’ultima cosa: chiedo alle persone che pensano che Bashar al Asad sostenga la Palestina o che credono ancora alla sua propaganda, di andare a ripassare un po’ la storia, di leggere quel che lui e suo padre hanno fatto alla Palestina e ai campi palestinesi. E anche se non siete convinti, non lasciate che questo fatto, non lasciate che la convenienza politica influisca sul vostro sostegno alla rivoluzione siriana. Perché è ovvio che non si tratta di geopolitica. Non sappiamo quali conseguenze per la causa palestinese potrebbe avere un’eventuale vittoria della rivoluzione in Siria. Potrebbe anche danneggiarci, non lo so. Ma nemmeno mi importa. Perché il mio sostegno alla rivoluzione siriana è incondizionato.
E credo fermamente che anche se sta diventando sempre più complicato, e nonostante tutti i terribili gruppi che stanno cercando di dirottare la rivoluzione siriana, soprattutto lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, cui ovviamente ci opponiamo, come tanti siriani, gli stessi siriani che hanno iniziato la rivolta contro il regime e che protestano anche contro lo Stato islamico, io ho fiducia in queste persone. Ho fiducia in una donna come Suad Nofal, ho fiducia in persone che dimostrano una tale capacità di resistere e tanta risolutezza a Damasco e a Daraa, culla della rivoluzione, e ad Aleppo e a Salamiyya, la fantastica città che manifesta fin dai primi giorni della rivolta.
Perciò ho fiducia in queste persone che, anche se la situazione sta diventando sempre più complicata, possano riuscire a continuare la rivolta, e anche se questo potrebbe andare a discapito della mia causa, non me ne importa. Quel che mi importa sono la libertà e la dignità delle mie sorelle e dei miei fratelli siriani, e rifiutare che il mio nome o il mio Paese o la mia causa siano usati o cooptati dal regime siriano per uccidere e perseguitare le mie sorelle e i miei fratelli in Siria.